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LA COMPASSIONE NASCE DA CIÒ CHE SIAMO

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Mt 14,13-21

Udito ciò, Gesú partí di là su una barca e si ritirò in disparte in un luogo deserto. Ma la folla, saputolo, lo seguí a piedi dalle città. Egli, sceso dalla barca, vide una grande folla e sentí compassione per loro e guarí i loro malati.

Sul far della sera, gli si accostarono i discepoli e gli dissero: "Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare." Ma Gesú rispose: "Non occorre che vadano; date loro voi stessi da mangiare." Gli risposero: "Non abbiamo che cinque pani e due pesci!" Ed egli disse: "Portatemeli qua". E dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull'erba, prese i cinque pani e i due pesci e, alzati gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla. Tutti mangiarono e furono saziati; e portarono via dodici ceste piene di pezzi avanzati. Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini.

*****

Il cosiddetto racconto della "moltiplicazione dei pani" compare nei quattro vangeli canonici, il che è indizio che dovette accadere qualcosa di storico che produsse un profondo impatto in quelle prime comunità.

Per quanto riguarda l'accaduto, non abbiamo dati che possano avallare una o altra ipotesi. Forse, la presenza carismatica di Gesú mobilitava la gente a condividere tutto ciò che aveva ed era proprio in questa stessa condivisione che avveniva il "miracolo", mettendo anche in rilievo una cosa evidente: quando siamo capaci di condividere, basta per tutti..., e avanza.

Questo vale per piccoli gruppi, ma anche per tutta l'umanità. Studi rigorosi ci ricordano che nel pianeta ci sono risorse piú che sufficienti per sradicare definitivamente la piaga della fame. Quello che manca è volontà politica e, alla fin fine, coscienza solidale.

In quanto a ciò che concerne il nostro racconto, sebbene sia certo che compare nei quattro evangelisti, l'intenzione in essi è diversa: Giovanni pone la narrazione al servizio dell'auto-rivelazione di Gesú, per mostrarlo come il "pane di vita", vale a dire, la parola che nutre.

Nei sinottici, invece, il racconto mette in risalto la compassione di Gesú. E sarebbe questo probabilmente il suo senso originale.

Il termine "compassione" è stato spesso interpretato male, in chiave di pietà o compatimento superficiale e passeggero che inoltre denotava una certa superiorità o, almeno, paternalismo. In quest'ottica, la "compassione" sarebbe l'atteggiamento di uno che sta bene e prova pietà verso chi si trova in una situazione difficile: può perfino aiutarlo, ma sempre "dall'alto" e senza alcun tipo di impegno. È comprensibile quindi che, intesa in questo modo, sia stata squalificata.

Tuttavia, l'autentica compassione -cosí come se ne parla, ad esempio, nel vangelo- non ha niente a che vedere con quella caricatura.

Compassione significa mettersi con passione nella pelle dell'altro e al  fianco (a favore) di lui. Nei racconti evangelici si usa il verbo splagchnizomai, che vuol dire "sentirsi commosso nelle viscere" (cioè nel piú profondo) dinanzi alla sofferenza.

Tale commozione porta ad un'azione efficace a favore della persona sofferente o bisognosa.

Non c'è dunque alcunché di superficiale o di paternalistico. Il termine appartiene piuttosto alla famiglia dell'empatia e della simpatia (infatti la "cum-passio" latina coincide con la "sym-patheia" greca). In tutti questi casi, il riferimento è chiaro: si tratta del riconoscimento della nostra identità condivisa.

Questa è la fonte della compassione: la consapevolezza o comprensione che tutti siamo uno, cosí come si esprime nella cosiddetta "Regola d'oro", presente in tutte le tradizioni di saggezza: "Non fare agli altri quello che non vorresti che essi facessero a te"; o "tratta gli altri come tu vorresti essere trattato da loro". Partendo da questa coscienza di identità condivisa, cade per terra qualunque atteggiamento paternalistico: ci ritroviamo tutti nel "territorio" comune.

Non è strano che la compassione possa risvegliarsi a contatto con la propria vulnerabilità, fragilità o debolezza. Quando accogliamo tutta questa parte della nostra realtà con un atteggiamento umile, è probabile che emerga un sentimento amoroso verso noi stessi, e che, a partire da questo, diveniamo piú sensibili alla sofferenza di tutti gli esseri.

In ogni caso, la compassione sembra richiedere una duplice condizione: da un lato, lasciarci colpire da ciò che accade -vale a dire, avere una sensibilità pulita, non bloccata, e vibrante- e, dall'altro, sviluppare la capacità di amare, che vive in tutti noi: uscire dagli schemi abituali dell'ego, che gira intorno a sé stesso, per vivere dove siamo Amore, o ancora meglio, nella pura coscienza di essere, dove ci riconosciamo uno.

 

Enrique Martínez Lozano

Traduzione: Teresa Albasini

www.enriquemartinezlozano.com

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