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-

SIAMO DIVERSI, MA NON-SEPARATI

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Gv 15, 1-7

"Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie o ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti piú frutto. Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da sé stesso se non rimane nella vite, cosí anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato.

*****

L'allegoria della vite e i tralci, carica di simbolismo, profondità e bellezza, ci introduce direttamente nella sapienza della non-dualità.

Certamente, la vite ed i tralci sono non-due. La mente dualistica non può che vederli separati -è caratteristico della mente separare la realtà-, ma non c'è alcuna separazione. È vero che il tralcio può essere percepito come tralcio, ma resta sempre vite. Un ramo è albero, nello stesso modo in cui il mio dito è corpo.

Il tranello sta nel fatto che la mente, nel separare -la prima caratteristica della mente è appunto la separatività, poiché è questo l'unico modo in cui può funzionare-, guarda unicamente il tralcio, il ramo o il dito, dando cosí origine al dualismo che frattura incessantemente tutta la realtà.

Solo quando siamo capaci di acquietare la mente, riusciamo a vedere "oltre" queste apparenti separazioni, e possiamo percepire l'unità di ciò che è. Con un altro esempio: davanti ad un insieme di gioielli d'oro, la mente vede la specificità di ciascuno di essi, con il proprio nome e la propria forma peculiare. Ma, se non ci fermassimo alle forme, quello che percepiremmo sarebbe l'oro, che è, di fatto, l'unica realtà che è presente in tutte queste forme. Siamo diversi, ma non-separati: non siamo uguali, ma siamo la stessa cosa.

L'allegoria parla di "togliere" e di "potare". Ancora una volta, mi sembra necessario ricordare che non bisogna leggere tali affermazioni in chiave di minaccia, ma come parola di sapienza. Sebbene in quella visione del cosmo, a partire dall'immagine di un dio interventista, tutto venisse attribuito direttamente a lui, oggi possiamo coglierne meglio il significato, come una descrizione di ciò che accade.

Nello stesso modo in cui è impossibile che il tralcio che si stacca dalla vite possa fare frutto, cosí anche la persona che vive staccata dal suo fondo sperimenterà la sua esistenza come vuoto. E non sarà strano che si senta smorta, priva di vivacità e di senso.

La "potatura" fa parte ineludibile di tutto il processo di crescita. In sintesi, si potrebbe esprimere in questo modo: si tratta di morire a ciò che non siamo perché possa vivere ciò che realmente siamo.

In questo senso, richiama quell'altra parola di Gesú riguardo al chicco di grano, che produce frutto soltanto quando cade in terra e muore (Gv 12,24): la fecondità è in ragione diretta della morte. In definitiva, si tratta della potatura dell'io -che crediamo di essere- per far sí che possa dispiegarsi la Vita che realmente siamo.

Grazie alla potatura, il tralcio diventa semplicemente "veicolo" della vite, a partire dalla coscienza di essere lui stesso vite.

La potatura può nascere da una decisione propria, caratteristica di ogni cammino spirituale, o può anche venire in maniera imprevista, in forma di crisi di qualsiasi tipo. In quest'ultimo caso, restiamo di solito sorpresi e, a volte, ci sentiamo anche scossi. Tuttavia, proprio quello che ci sorprende e ci sconvolge può costituire la migliore opportunità per una potatura efficace. Perché sia cosí, con lucidità e umiltà, dovremo situarci nella consapevolezza di ciò che sta per l'appunto accadendo, a partire dall'accettazione piú profonda, arrendendoci a quello e lasciandoci fare dalla Vita.

 

Enrique Martínez Lozano

www.enriquemartinezlozano.com

Traduzione: Teresa Albasini

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